Dovremmo abituarci un po’ di più a guardare le etichette dei prodotti che compriamo... almeno noi maschietti, che di solito deleghiamo alle nostre compagne il compito di capire di che tessuto è fatto quel determinato vestito, indumento, tappeto, borsa, eccetera, capire se è sintetico o naturale, se si può mettere in lavatrice, se potrà durare o se si rovinerà subito, e così via.
Sono certo che, al contrario di noi, le nostre compagne sanno che, quando su un indumento si legge l’etichetta con la sigla AB, siamo davanti ad un prodotto fatto di abacà, la canapa di Manila. Forse però non tutte sanno che la abacà è un banano, ovvero è una specie del genere Musa, la stessa del banano da frutto, che è Musa paradisiaca.
Per la abacà (o anche àbaca, con l’accento sulla prima) si può parlare anche di vendemmia, che consiste in una periodica “sguainatura” (due o tre volte l’anno) su esemplari di almeno due anni di vita; la loro produzione durerà circa dieci anni. Dopo la sguainatura si effettua la spampanatura, alla fine della quale le fibre così ottenute si lasciano seccare tradizionalmente al sole.
Le fibre di abacà sono adatte per fare cordami per imbarcazioni e reti da pesca, ma anche prodotti artigianali di pregio quali borse, tappeti ed indumenti. Si possono utilizzare anche in poltiglia per ottenere carte speciali (carta moneta), filtri e bustine da the.
Tutto questo avviene nel sud-est asiatico, soprattutto nelle Filippine, di dove la Musa textilis è originaria; oltre a canapa di Manila, la capitale delle Filippine, la abacà è commercializzata anche come canapa di Davao e canapa di Cebu, altre due isole dell’arcipelago. I primi a cercare di portare l’abacà al di fuori delle Filippine furono gli Olandesi nel 1925 (a Sumatra), poi gli Inglesi fecero la stessa cosa nel 1930 in Sarawak (Borneo malese), ed infine gli Statunitensi pensarono di tentarne la coltivazione, con successo, in America centrale.