Non sono del tutto sicuro che il monte Ida, il rilievo più alto dell’isola di Creta, sia pieno di lamponi, come lascerebbero pensare quei botanici che collegano il nome del Rubus idaeus, ossia il lampone, alla mitica montagna cretese, dove si rifugiò Zeus bambino, per sfuggire alla violenza del padre Crono. E neppure mi convince il riferimento ad un altro monte con lo stesso nome, situato questa volta presso le antiche rovine della città di Troia, in Turchia occidentale.
Al di là del mito, non mi faccio troppe domande quando raccolgo i gustosi frutti di questa Rosacea, che trovo spesso abbondante in radure e schiarite di boschi dei rilievi montani, in ambienti piuttosto ricchi di sostanze organiche, in gran parte dell’Europa centrale e settentrionale e dell’Asia temperata.
La coltura del lampone si fa risalire al Medioevo, quando gli speziali ne preparavano sciroppi indicati “per i tipi biliosi, i cui umori son troppo bruschi e che soffrono di eterna sovraeccitazione”. In effetti, fra frutti e foglie, la pianta risulta antinfiammatoria, decongestionante, astringente, cardiotonica e lassativa; per uso esterno se ne fanno collutori per bocca e gengive, e impacchi sugli occhi infiammati.
Oggi il frutto del lampone regna nelle macedonie di frutti di bosco, nei pasticcini e nelle torte di frutta; se ne fanno sciroppi, marmellate e gelatine, e si aromatizzano birre e aceti. In genere purtroppo, per le produzioni industriali si impiegano varietà e ibridi del lampone selvatico, certamente più produttive, ma meno buone dell’originale.