Piante in viaggio

 

 Bandiere nel piatto

 

Sognando di essere come Umpa-pah (3)

Cucine etnografiche: la dieta dei Nativi Americani (terza parte)

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Sta facendo nuovamente capolino, nei farmer’s markets di San Francisco o di Seattle, la bacca del bufalo, ossia il frutto della Elaeagnacea Shepherdia argentea: se ne nutrivano i Nativi, ma per noi il gusto resta ancora troppo acido (meglio se viene raccolta dopo la prima gelata).

Non incontrerà i gusti del mondo Occidentale l’esile stelo della Yucca glauca, la cosiddetta yucca a foglie strette: era spesso mangiato subito dopo la raccolta, arrostito su un letto di carboni ardenti e privato della buccia esterna, carbonizzata. Ciò avveniva nelle desolate terre degli Apaches (Arizona, New Messico, Nord del Messico), solo perché era uno dei primi cibi disponibili, all’inizio della primavera.

Analoghi motivi di necessità hanno spinto i cercatori d’oro, sui monti della California, in quel fatidico 1849, a variare la dieta di fagioli e frittelle raccogliendo e usando una specie di lattuga, che da allora fu chiamata appunto lattuga dei minatori. Era la Portulacacea Claytonia perfoliata, già nota agli indigeni. Quasi sempre viene mangiata fresca in insalata; ha un sapore meno delicato di quello della lattuga, per via della ricchezza in ossalato di calcio; può essere bollita come gli spinaci, a cui finisce per assomigliare nel gusto.

Come molti “frutti della passione”, anche quelli della Passiflora incarnata (la passiflora purpurea o “maypop”) sono commestibili, come ben sanno – e sapevano – le tribù degli Stati del Sud-Est, che attribuiscono loro anche proprietà medicinali.

Per gli Indiani d’America, sono stati molti i prodotti da raccogliere sottoterra: fra bulbi, rizomi, tuberi e radici i Nativi americani erano in grado di procurarsi il necessario apporto di amido e di carboidrati complessi che oggi in genere è soddisfatto dalla patata (Solanum tuberosum).

In assenza della patata, che ancora doveva giungere dal Peru, i popoli del Nordamerica andavano in cerca ad esempio della rapa delle praterie: il tubero della Leguminosa Pediomelum esculentum è stato per secoli o forse millenni il principale alimento degli Indiani delle Pianure centrali. Di per sé piuttosto insipido, ma facile da trasformare in farina e conservare, diventava una leccornia se unito al trito secco delle bacche saskatoon, di cui dicevamo prima, o di altri frutti. E resta ancora oggi un ingrediente segreto per molte massaie delle attuali comunità pellirossa.

Più o meno sullo stesso piano del precedente va messo il glicine tuberoso (Apios americana) che vive allo stato spontaneo in Canada e negli Stati Uniti, specialmente nella regione orientale del continente Nuovo. Il tubero di questa Leguminosa, facile da conservare, ha avuto una assoluta importanza nell’alimentazione degli Americani nativi, che nel loro seminomadismo ne facevano larga incetta. Gli stessi primi coloni inglesi, compresi i Padri Pellegrini, fecero tesoro delle conoscenze botaniche dei Nativi, e ne iniziarono essi stessi la coltivazione.

Il topinambur (Helianthus tuberosus) in America è stato sin dai tempi più remoti una altrettanto importante pianta alimentare; oggi il suo tubero vive un periodo di riscoperta grazie al diffondersi dei prodotti salutistici, visto che non contiene amido, bensì il polisaccaride inulina, che ha molte meno controindicazioni.

La cipolla delle praterie, l’Allium stellatum, nei secoli ha fornito alla dieta dei Nativi sia i bulbi che le foglie. Ha subito in modo drammatico la concorrenza della asiatica Allium cepa, la cipolla, dal gusto meno aggressivo.

Significativa è la storia della camassia, la Agavacea Camassia quamash. Ci offre un bulbo che può essere cucinato subito alla brace o allo spiedo, oppure trasformato in farina; il suo sapore ricorda la patata dolce, ma la sua consistenza, grazie alla presenza dei cristalli di inulina, è diversa. Diffusa su tutta la porzione occidentale del Continente, la camassia era una fonte di cibo primaria per le tribù native, le quali hanno dovuto fare i conti con l’arrivo dei pionieri e soprattutto del loro bestiame, che danneggiava gravemente i pascoli dove cresceva questa specie, vanificandone quasi la raccolta.

Recenti polemiche con gli ambientalisti, peraltro motivate, si stanno registrando nel tentativo di limitare la raccolta libera del Sabal palmetto, il “palmetto blu”, nella maniera un tempo adottata dalle tribù del Sud-Est degli Stati Uniti: la asportazione del germoglio terminale delle foglie, cucinate poi come un cuore di cavolo, determina la morte della pianta.

Come ultima specie di questo elenco sicuramente incompleto, dove ho voluto trattare esclusivamente le specie autoctone del Continente nordamericano (ho tralasciato ad esempio quelle circumboreali, presenti in tutto l’emisfero Nord, quindi anche in Nord Europa e in Siberia), vi cito la Zizania palustris, che oggi noi conosciamo come “riso selvaggio”. Sulla base dei pollini fossili ritrovati in campioni di sedimento della zona dei Grandi laghi, questa specie era probabilmente già coltivata, o meglio raccolta, almeno dal primo secolo d.C.: per gli Ojibway il manoomin (il nome della pianta in lingua locale) rimase per centinaia di anni la base alimentare. Si tratta in fondo dell’unico cereale sfruttato dalle popolazioni autoctone precolombiane di cui abbiamo conoscenza. Poi, le cose sono cambiate, fin troppo.

Chissà se un giorno riuscirò, andando da quelle parti, a farmi cucinare da qualche loro discendente un buon pemmican, a base di carne di alce, more di gelso rosso e bacche saskatoon. E chissà che effetto farebbe sulla mia muscolatura, magari mi sentirei forte come Umpa-pah…

 

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