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KALUMBA: Un nome da ripristinare

Forse anche un po’ per pigrizia, chi ha messo in vendita in Italia la Jateorhiza palmata si è basato sulla assonanza del suo nome in lingua swahili, che è “kalumba”, e l’ha ribattezzata “colombo”. In attesa che si ripristini un po’ di giustizia linguistica, e che anche noi Italiani iniziamo commercialmente a chiamarla in modo appropriato, manterremo qui il nome indigeno di questa Menispermaceae, che ci giunge del lato orientale del continente africano; da lì si è diffusa per coltivazione in molte altre aree tropicali.

La Jateorhiza palmata è una liana perenne che si sviluppa da un grosso tubero carnoso, provvisto di una spessa scorza grigio bruna, e di una polpa giallastra, mucillaginosa e dal sapore molto amaro. Dal tubero perenne si sviluppano ogni anno fusti lianosi rampicanti, capaci di salire fino alla cime degli alberi della foresta; sono completamente rivestiti da peli ghiandolari e reggono foglie alterne, di consistenza membranosa, lungamente picciolate e dalle nervature palmate (da cui il nome della specie). I fiori, distinti per sesso, poco visibili, sono di colore verde chiaro; i fiori maschili sono disposti in lunghe pannocchie, quelli femminili danno piccole drupe anch’esse verdastre.

La prima comparsa della kalumba in letteratura botanica si verificò nel 1671, quando commercianti Portoghesi la fecero arrivare in Europa dallo Zanzibar: fu subito riconosciuta come pianta medicinale, ottimamente indicata per risolvere le digestioni difficili. E sempre i Portoghesi ne favorirono la coltivazione in Brasile, che oggi ne è il principale produttore mondiale. In effetti, la kalumba, con la sua notevole ricchezza di principi attivi (alcaloidi, furanoterpenoidi, glucosidi), non ha quasi controindicazioni: non conduce a nausea o a vomito, non è astringente né provoca acidità di stomaco, non comporta problemi al fegato; viene viceversa suggerita caldamente nelle convalescenze, per ritrovare presto l’appetito perduto.

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