Nelle sue poderose memorie, date alle stampe con il titolo “I sette pilastri della saggezza”, sulla strada per Aqaba Lawrence d’Arabia descrive l’attraversamento di una valle interamente ricoperta di coloquintide. È una delle poche annotazioni vegetali dell’intero libro, visto che anche sul cibo ci si sofferma soprattutto su montoni arrostiti e carne di cammello salata. Ed il paesaggio narrato è quello dei deserti, di sabbia e di roccia, interrotto solo qualche volta da oasi e campi in riva a torrenti quasi sempre asciutti.
È probabile, come sostengono alcuni Autori, che la coloquintide sia originaria dei terreni sabbiosi della Nubia, da dove si è diffusa presto nella conca del Mediterraneo e verso oriente. Risulta infatti citata nel papiro di Ebbers (talora scritto anche Ebers), e molto nota nella farmacopea dell’antico Egitto, dove era segnalata come drastico purgante. Con questa funzione la coloquintide, forse il purgante di uso più antico, è stata usata fino all’inizio del XIX secolo, e poi quasi dimenticata.
Per conservarlo, il frutto va raccolto maturo e subito liberato dell'epicarpo; poi viene fatto essiccare, finché non diventa bianco, spugnoso e leggero, ed al suo interno si crea una cavità a forma di stella a tre punte. Tuttora le popolazioni sahariane usano scavare via dal frutto la polpa, riempirlo di latte, lasciarlo riposare una notte e infine berlo al mattino con olio d'oliva; l’effetto è assicurato.
Oggi come purgante la coloquintide è decisamente in declino, tranne in omeopatia, e si tende ad usare altro; si è visto infatti che, a dosi sbagliate, la coloquintide può dare gravi fenomeni di intossicazione: in sequenza, a seconda della quantità ingerita, si hanno nausea, vomito, gastroenterite con forti crampi, seguiti da scariche sanguigne e dolorose, convulsioni e infine morte. Ma gli Egizi avevano la coloquintide, e quella usavano, migliaia di anni fa.