Forse anche un po’ per pigrizia, chi ha messo in vendita in Italia la Jateorhiza palmata si è basato sulla assonanza del suo nome in lingua swahili, che è “kalumba”, e l’ha ribattezzata “colombo”. In attesa che si ripristini un po’ di giustizia linguistica, e che anche noi Italiani iniziamo commercialmente a chiamarla in modo appropriato, manterremo qui il nome indigeno di questa Menispermaceae, che ci giunge del lato orientale del continente africano; da lì si è diffusa per coltivazione in molte altre aree tropicali.
La prima comparsa della kalumba in letteratura botanica si verificò nel 1671, quando commercianti Portoghesi la fecero arrivare in Europa dallo Zanzibar: fu subito riconosciuta come pianta medicinale, ottimamente indicata per risolvere le digestioni difficili. E sempre i Portoghesi ne favorirono la coltivazione in Brasile, che oggi ne è il principale produttore mondiale. In effetti, la kalumba, con la sua notevole ricchezza di principi attivi (alcaloidi, furanoterpenoidi, glucosidi), non ha quasi controindicazioni: non conduce a nausea o a vomito, non è astringente né provoca acidità di stomaco, non comporta problemi al fegato; viene viceversa suggerita caldamente nelle convalescenze, per ritrovare presto l’appetito perduto.