La lucuma è una pianta peruviana… da sempre: reperti archeologici documentano che già novemila anni fa il frutto della Pouteria lucuma (oggi meglio Lucuma bifera) era noto ai nativi. Intorno al secondo secolo prima di Cristo, è stato accertata la coltivazione estensiva della lucuma, anche se forse questa Sapotacea era sta “addomesticata” già prima.
Il picco della sua coltivazione fu raggiunto all’epoca della cultura Moche, circa nel VII secolo d.C., mediante l’uso di tecniche di irrigazione e di coltivazione di tipo intensivo. La coltura della lucuma si espanse oltre i limiti dell’altopiano andino, e all’arrivo degli Spagnoli era diffusa in quasi tutto il Peru e nel sud dell’Ecuador. Possiamo dunque dire che questo frutto abbia costituito per secoli, insieme al mais, ai legumi, alla patata e alla quinoa, uno degli elementi principali della dieta alimentare degli abitanti del Peru.
Il gusto della lucuma è strano: la sua polpa non è affatto succosa, piuttosto dà la sensazione di essere secca (un po’ come le nespole selvatiche del Crataegus germanica). Ma è dolce, e ricca di amido, qualità che ne giustifica l’impiego sotto forma di farina, esattamente come un cereale. Infatti la lucuma deve essere consumata molto matura e si tende a conservarla per molti giorni avvolta nella paglia dopo la raccolta. La sua nutriente farina è ricca in ferro, niacina e beta-carotene. Si usa cotta in torte, paste e gelati, frullati, budini (lo facevano già le popolazioni preincaiche).
La Lucuma bifera ha sempre avuto importanza anche nell’industria del legno: leggero, di colore chiaro, di grana fine, resistente, il legno della lucuma fu usato ad esempio nella costruzione del Santuario di Pachacàmac, uno dei siti archeologici più importanti del Peru, 40 km a SE di Lima. L’organismo governativo peruviano della Coproba (Comisión Nacional de Productos Bandera) ha inserito a pieno titolo la lucuma nel suo elenco di prodotti tipici di quella terra, e mi trova d’accordo.