Non sono riuscito a capire fino a che punto sia autobiografico il romanzo di Herman Melville “Typee”: il protagonista vi descrive un lungo soggiorno, più o meno forzato, presso una tribù delle isole Marchesi, nel sud del Pacifico, e ne approfitta per descriverne usi e costumi (e rimarcarne la distanza dallo stile di vita dell’Occidente). Leggendo il libro, ho trovato diverse indicazioni di tipo botanico: alimentazione basata sull’albero del pane, cosmesi basata sull’olio di cocco, tessuti fatti da tappa (Broussonetia papiryfera). E una conferma: per l’illuminazione, quei Polinesiani si servivano del kukui, la Euphorbiacea Aleurites moluccana. E fra poco vi spiego come.
Quello che conta è il frutto, che tecnicamente è una drupa indeiscente, quasi sferica, di 5-7 cm di diametro, in cui la parte preponderante (circa due terzi) è data dalla buccia, particolarmente dura e spessa, ruvida. All’interno ci sono uno o due semi neri, dalla consistenza morbida e ricchi di olio. Non sono commestibili da acerbi, ma arrostiti si possono mangiare ed hanno un gusto simile alle nostre noci comuni; altrimenti possono provocare diarrea e vomito.
L’olio ottenuto dai semi della Aleurites moluccana è l’olio da pittura più usato in Oriente, ed è questo il motivo della sua diffusa coltivazione, dalla Malesia all’India, alla Cina, a molte isole del Pacifico. Il kukui cotto compare comunque nella cucina malese ed indonesiana, ed è presenza consueta nel barbecue delle Hawaii.
La pianta del kukui è nativa delle Molucche (lo dice il nome specifico), della Nuova Guinea e dell’Australia settentrionale. Quasi certamente fu in queste zone che gli indigeni perfezionarono l’uso dei semi del kukui per provvedere alla propria illuminazione: si infilano tre o quattro semi su un bastoncino, gli si dà fuoco, ed ecco a voi la “noce candela”.