In qualche modo, la parola “guttaperca” mi rievoca le magiche pozioni medievali, gli ingredienti esoterici messi a bollire nel calderone da malevole streghe o da temibili maghi depositari di antichi misteri.
Il nome di questa sostanza è una corruzione delle parole malesi “jetah percáh” che significano letteralmente “gomma di percha”, e “percha” indica appunto l’albero da cui è ricavata dalle popolazioni indomalesi, che lo sfruttano da secoli.
Al contrario della gomma naturale, ottenuta da Hevea brasiliensis, la guttaperca non ha bisogno del processo di vulcanizzazione, mantenendo nel tempo le sue caratteristiche di elasticità e duttilità. La guttaperca è un ottimo isolante: a partire dalla metà dell’800, è stata il primo materiale impiegato per rivestire cavi telegrafici e telefonici sommersi. Fu introdotta in Italia per la prima volta nei primi del Novecento da Giovanni Battista Pirelli, fondatore dell’omonima ditta, che di gomme, come si dimostrò in seguito, se ne intendeva. Il suo impiego come isolante nell’industria si è ridotto nel corso del XX secolo, quando venne sostituita per lo più da resine sintetiche, o dal polietilene. Oggi continua ad essere impiegata per fogli, tubi, abiti e teli impermeabilizzati; la pallina da golf ha un nucleo di guttaperca. È probabile che tutti noi prima o poi incontriamo la guttaperca sul nostro cammino: si usa in odontoiatria per chiudere i canali dopo la devitalizzazione della polpa, la parte più interna del dente. Pensateci, potrebbe servire a distrarvi, quando siete sulla poltrona del dentista...