Il 1980 è un anno importante nella storia del khat, una Celastracea classificata come Catha edulis: in quella data l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inserito questa specie nell’elenco delle droghe e dei narcotici. In effetti, le foglie del khat contengono un alcaloide dall’azione stimolante, eccitante e a forti dosi euforizzante (con il rischio di creare forme di dipendenza).
Il khat vive spontaneo in tutta l’Africa orientale dal Sudan al Mozambico fino allo Swaziland, e presto sbarcò nella Penisola araba (Yemen); viene coltivato ed apprezzato specialmente nel mondo arabo, nei cui mercati cittadini viene venduto in grossi fasci di fronde appena tagliate. Sia per gli effetti che per le modalità di consumo che per il diffuso impiego sociale in quella parte di mondo, si può a buon diritto paragonare l’uso del khat presso le popolazioni arabe a quello della coca (Erythroxylum coca) presso le popolazioni andine.
Le foglie della Catha edulis vanno consumate masticandole direttamente, meglio se giovani e fresche, sia perché più ricche di principi attivi, sia perché tali principi tendono a scomparire seccando dopo qualche giorno. L’effetto euforizzante, che si percepisce da una a tre ore dopo la masticazione, è dato soprattutto da due composti analoghi alle anfetamine ed alla cocaina: la catina ed il catinone. Come la coca, il khat abbassa lo stimolo della fame, producendo nei consumatori abituali forme di tipo anoressico. Le foglie sono impiegate anche in infuso, ottenendo così il “bushman tea”, o semplicemente “the arabo”.